Quando sentirsi abbastanza…. non è abbastanza

Come accade tutte le singole e infinite mattine, inizia a squillare la sveglia, quel piccolo diavolo impossessatosi del mio telefono che non si decide a lasciarmi in pace, così decido di alzarmi dal letto e inizio a pregare che quella giornata si prospetti bella e tranquilla. A dire il vero, solitamente non lo è mai.
Si, insomma, la normalità…
Per me normalità è fare la colazione all’americana, con uova, bacon e toast al formaggio, decisamente la migliore. Oppure è normale parlare con me stessa, intere conversazioni e discorsi profondi che, alla fine, solo io ascolterò. L’ansia? Oh, l’ansia è la mia migliore amica, mi accompagna in ogni mia avventura ed esperienza, e a quanto sembra, non è intenzionata a lasciarmi presto. Ma questa, alla fine, è là normalità.
Quindi, come di consuetudine, mi dirigo a scuola, verso quel luogo che a volte è così spaventoso, ma elettrizzante allo stesso tempo, che pare essere capitati all’inferno. Sì, l’inferno adolescenziale, decisamente peggio di quello vero, abitato da tutti quegli adolescenti in preda agli ormoni mentre attraversano la solita fase di “ribellione”, con la loro vivacità e l’incontenibile voglia di scatenarsi.
Mi fa accapponare la pelle. Per non parlare di tutte quelle ragazze che hanno come interesse comune essenzialmente uno: i ragazzi.
Molte mie amiche, già fidanzate, si ritrovano spesso a parlare di cosa potrebbe piacere ai ragazzi, che profumo usare per l’atteso appuntamento, cosa indossare e come indossarlo.
E poi ci sono io, una ragazza single dalla nascita che non ha affatto esperienza in questo campo,

mentre mangia un’intera confezione di gelato, indossando un pigiama con le paperelle. Non nego di provare invidia nei loro confronti, qualche volta. Insomma, perché loro sì, ed io no? E se il problema fossi io?
Forse non sono abbastanza.

“Sara! Svegliati o farai tardi a scuola! Non ho la minima intenzione di scaldare i motori della macchina solo perché tu hai perso l’autobus!”
Oggi a scuola avrei avuto ginnastica, quella materia ideata e progettata dal diavolo in persona. L’ultima volta ci ho quasi rimesso la pelle.
Il professore era solito farci giocare a pallavolo durante la sua ora di lezione, alcuni dicono che è perché è un fanatico di quello sport, altri che è perché non ha voglia di fare lezione, e onestamente credo che l’ultima opzione sia la più giusta. E questo aggrava di gran lunga la mia situazione, visto che a pallavolo sono davvero incapace, come, alla fine, in tutti gli sport. Infatti, durante l’ultima e fatidica partita, entrai in campo come scorta, proprio al momento della battuta.
Ovviamente, la palla non andò a finire dall’altra parte della rete, ma dritta sulla faccia del professore. Come ho fatto ad uscirne viva non ne ho idea, ma tutti quegli sguardi addosso e le risatine in sotto fondo, non mi aiutavano affatto. Così ieri sera, avendo nevicato ( cosa incredibilmente rara ), decisi di prelevare un po’ di neve e di spalmarmela su tutto il corpo, sperando che il giorno dopo mi sarei risvegliata con la febbre. Ma, considerando la mia incredibile sfortuna, scoprii di essere decisamente sana come un pesce.
Entrai a scuola, non sapendo che da lì a poco avrei ricevuto una notizia sconcertante.
La festa di fine anno.

Quello sì che poteva definirsi un vero e proprio inferno, il più terribile di tutti.
Cosa avrei indossato? Chi mi avrebbe accompagnato? Con chi avrei ballato?
Uscita da scuola, corsi a casa ad avvisare mamma della notizia.
“Oh Sara, questa è un ottima notizia. È un esperienza che nessun adolescente dovrebbe farsi sfuggire! Ci penso io al vestito, tu non preoccuparti.”
Terribile, questa è una situazione terribile.

La sera del ballo arrivò prima che io potessi accorgermene. Il vestito regalatomi da mia madre era lungo e rosso, rosso fuoco, ispirava passione. Non si addiceva per niente a me, io, una ragazza amante delle tute nere e comode. Preferivo pensare che quel colore fosse simile al sangue, quello che ti ribolle nelle vene quando subisci un’ ingiustizia senza poter controbattere.
Entrata nella sala, venni pervasa da adolescenti impazziti. La palestra era prevedibilmente allestita come quelle delle scuole americane alle cerimonie importanti. Decisi di sedermi su una panchina, ad aspettare che qualcuno si facesse avanti.
Indovinate…. Nessuno si fece avanti.
Così mi rintanai in bagno, ormai completamente senza speranza.
Si, il problema ero decisamente io.
Ma, inaspettatamente incontrai una ragazza.
Una ragazza diversa da tutte le altre. Era seduta a gambe incrociate sul tavolo, vicino al lavandino, mentre fumava una sigaretta.

“Ciao, anche tu stufa della festa?” mi disse. “Già, è piuttosto noiosa”.
Da come si atteggiava, sembrava che non le interessasse niente di nessuno.
“A volte davvero non sopporto gli adolescenti, anche se sono una di loro.
Insomma, tutte quelle ragazze che sbavano dietro al primo ragazzo che passa, come se questo fosse il motivo per cui noi esistiamo. Mi sembra qualcosa di assurdo. Per come la vedo io, noi possiamo fare tutto e forse anche meglio, senza i ragazzi. Perché fissarci su cosa potrebbe o non potrebbe piacergli? Impensabile. Io sto bene come sto.”
Ha ragione, ha decisamente ragione.
“Sai, forse sono d’accordo con te, posso sapere il tuo nome?”
“Certo, mi chiamo Mary”
Quando Io e Mary uscimmo dal bagno, il mio pensiero su quell’argomento cambiò totalmente rispetto alle convinzioni che avevo inizialmente. È come se lei mi avesse aperto gli occhi su cose che per me erano scontate. È davvero di così vitale importanza piacere ai ragazzi, a tal punto da dover cambiare sé stessi per loro?
Sin da quando Mary entrò nella sala da ballo, la vidi così tranquilla e senza pensieri, come se non le importasse niente di piacere agli altri. Non le interessava cosa pensavano gli altri di lei, né tantomeno quello che pensavano i ragazzi. Lei era sé stessa, essere perfetta e attraente non faceva parte dei suoi pensieri. “Nasciamo per essere reali, non per essere perfetti”…è questa la frase che mi saltò subito in mente quando la guardai, è proprio come se lei lo stesse urlando a tutto il mondo attraverso il suo atteggiamento.
Quando rientrammo, la sala non cambiò di una virgola, era tale e quale a prima: colorata, estremamente addobbata, forse anche troppo per i miei gusti, con la musica a palla e più o meno l’80% degli studenti che si scatenavano nel bel mezzo della palestra come mandrie impazzite.
Io e Mary ci dirigemmo verso la sala dove tenevano i cappotti, intenzionate ad uscire per andare a prendere insieme una cioccolata calda, ma, inaspettatamente, i nostri piani saltarono a causa di un’amica di lei che la costrinse ad andare a ballare perché senza compagno. Così rimasi sola io, con il cappotto mio e di Mary in mano, all’entrata della scuola, con il bidello che mi fissava in modo inquietante. Sarei potuta tornare a casa da sola, ma decisi di aspettare la mia nuova amica, non avevo neanche registrato il suo numero di telefono. Rientrai in sala e mi sedetti su una panchina a scrutare ogni minimo centimetro di quella enorme e spaziosa palestra. Notai una ragazza seduta metri distante da me. Aveva l’aria triste e sconsolata, probabilmente si trovava nella mia stessa situazione…rifiutata e senza nessun accompagnatore.
Solitamente avrei lasciato perdere, sarei tornata alle mie riflessioni, senza pensare al prossimo, effettivamente la mia ansia non mi avrebbe permesso diversamente. Quella volta però fu diverso. Anche io volevo essere per quella ragazza ciò che Giulia era stata per me. Anche io volevo essere coraggiosa come lei.
“Ma se non vuoi fare la differenza, allora sii mediocre. Sii normale e abituati. E una volta neutralizzata la tua unicità, non hai più bisogno del coraggio”. Questo pensavo.
Serve coraggio per essere diversi. Serve coraggio per avere successo. Serve coraggio per vincere. Le persone non parlano di chi non vince. Se vinci parleranno di te.
Mi alzai e andai incontro a quella ragazza.
Le chiesi di ballare e le dissi che noi, non avevamo bisogno dei ragazzi per poter ballare, anzi potevamo fare questo e molto altro senza di loro.
Così ci alzammo e ballammo per tutta la serata.
Io, quella sera, ho vinto.

Contributo di Serena Fucci, 1 CAT